Il “Cappotto” di Gogol

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Presso l’intrepido Circolo culturale Pivot di Castellana grotte è andato in scena il dramma tratto dal “Il cappotto” di Gogol, pubblicato per la prima volta nel 1842.

Il Circolo – che ha offerto il palcoscenico al generoso cast di attori – è intimo quanto minuscolo, familiare, venerato dalla comunità per la perseveranza del Presidente Federico Simone.

                

Gli artifici recitativi che ha adoperato la compagnia vanno dall’impiego della voce narrante, interpretata da Marisa Clori, all’ingegnoso utilizzo della figura retorica della Prolessi, in cui l’attenzione dello spettatore viene catturata dall’epilogo, svelato nella prima scena in modalità di ‘Medias res’, catalizzando l’attenzione su un palcoscenico privo di sipario.

Ecco che il teatro stesso diventa uno dei protagonisti, condizionando le scelte narrative come farebbe un novello attore istrionico, che impone le mani sul viso dello spettatore dirigendone lo sguardo sulla scena appena avviata.

Il prosieguo del dramma, condotto con ritmi i dialogici della commedia, racconta il rapporto di un cittadino della Pietroburgo, di quasi due secoli fa, con il suo surrogato affettivo capace di salvarlo dalla tetra consuetudine di una vita monotona.

L’argomento è denso di spunti filosofici, psicologici e sociologici che sono espressi nel lutto della speranza defraudata, mortificata dal delitto subito sull’oggetto di tanto desiderio: il cappotto (ovvero la mantella, in russo, per declinarla con il genere originale femminile), che gli fu rapinato proprio all’inizio dell’idillio, il primo giorno in cui fu indossato.

Il tema induce riflessioni sul rapporto affettivo e feticistico che le persone hanno verso le cose, come sostitutivo estensivo di dedizione completa all’oggetto del loro amore, anche quando questo non può ricambiare specularmente e spontaneamente, come avverrebbe per il coniuge e per qualunque essere vivente in grado di rinnovare e di sublimare l’interessenza sentimentale tra due enti pensanti.

Qui il cappotto non pensa, ma coagula il senso pieno della vita del copista Leopoldo Pigliapoco, come ne è stato tradotto il nome nella riduzione, interpretato da Luciano Magno.

Compiendo la trasposizione – idealizzata sul bene, inanimato ma non emozionalmente inerte – il protagonista riesce a fruire della corresponsione di cui abbisogna, anche in mancanza di un abbraccio reciproco ma immaginato nel farsi ammantare dal soprabito.

Egli vive la potenzialità come vera e il desiderio come se fosse realmente vissuto.

E’ evidente la modernità dell’opera considerando le recenti ‘eccedenze’ di persone che maturano sentimenti di trasporto affettivo verso oggetti inanimati, solitamente adeguati ad esseri senzienti, come è accaduto anche nei confronti di Alberi e di Monumenti. Soprattutto da parte di donne.

Gli uomini paiono più interessati a sembianze antropomorfe e alle bambole, lasciando la fattura in gomma, di alcune di esse, ad un immaginario più sconcio.

Per Akakij Akakievic Bašmackin – nome originale onomatopeico del nostrano Pigliapoco – quel capo di abbigliamento assurge al ruolo di simbolo antropico, anche ipertrofico, occupando interamente l’essenza della sua vita.

Per venire ai tempi moderni, nemmeno il tanto osannato alone scientifico dell’intelligenza artificiale riesce ad attenuare la bizzarria dell’ingegnere cinese Zheng Jiajia, il quale arginò le ferree restrizioni della legislazione sulla procreazione e sui matrimoni, del suo paese, inanellando una robot di sua invenzione che già promette, nella versione più aggiornata, di “piegare il bucato e lavare i piatti”!

Dalle mie parti circola il proverbio: “Belli e brutti si sposano tutti”, ma non credo che la comunità che lo coniò avrebbe mai pensato si potesse impalmare ‘una Robot’, come è avvenuto nel paese del Dragone e come non mi meraviglierei capitasse anche più vicino a noi!

Agli occhi di persone, cosiddette normali, appare come un’idolatria bislacca la patologia dell’Oggettofilia, che costituisce la dipendenza di un individuo da un oggetto o da un Avatar evocativo.

A Taiwan non sono infrequenti i matrimoni spirituali ispirati ad un defunto, figurati dentro un simulacro inanimato. Sono la personificazione del ricordo, in termini iconografici, che cura la nostalgia della scomparsa del caro estinto.

Ogni rimedio, pur bizzarro, mutua un bisogno che rimarrebbe, altrimenti, insoddisfatto e che sarebbe pericoloso trascurare, ingenerando una lacuna.

 

Ritornando all’epoca del romanzo, da cui è tratto il dramma, vi si legge il pessimismo dell’ambizione scornata nelle condizioni reiette dell’ultimo anello della società, costituito da un impiegato della burocrazia statale che, per un giorno, riesce a scalare l’anello immediatamente superiore, acquistando il ‘gettone’ che gliene conferisce la dignità.

Infatti i suoi colleghi, con quel biglietto d’ingresso intessuto di una stoffa sartoriale, gli aprirono la porta, prima negata, di una frequentazione amicale.

Purtroppo quello fu il teatro, in itinere, della rapina che egli subì dopo essere stato invitato ad una festa.

Fatalmente l’ambizione di quell’eterno povero fu puntualmente repressa, al pari dell’ardire di coprirsi con decoro, espiata con la confisca del Cappotto da parte dei criminali che lo assalirono e lo rapinarono ignominiosamente.

La vittima, come spesso accade, ebbe ritegno di confessarlo e, quando si decise a farlo, dovette cedere alla vergogna inflitta dalla seconda aggressione istituzionale, che patì non per aver commesso il delitto, ma per averlo subìto!

Saranno le forze dell’ordine, simbolo delle sovrastrutture dello Stato, a perseguitarlo e paradossalmente a rendere lui l’oggetto dell’indagine, dispersa in sospetti arbitrari, invece di limitarsi a recuperare il bene trafugato.

Le controversie e la mancanza del riparo nel soprabito, presto porteranno alla morte colui che definiremmo ora gergalmente il “cornuto e mazziato”.

Il racconto prosegue descrivendo l’anima inquieta del personaggio che, da defunto, si aggira nei luoghi vissuti spaventando tutti e rapinandoli per ripicca, fino a infierire sullo stesso graduato che lo aveva angariato in sede di denuncia del furto. Questo approdo, finalmente, gli conferirà una giusta pace.

La vicenda delinea lo spaccato di una società oscura, quello della Russia dell’800, che si adatta alle contraddizioni attuali di istituzioni non all’altezza del loro compito, responsabili di tormentare invece di sanare gli oltraggi alla civiltà.

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